Anche le sentenze possono contribuire al cambiamento culturale contro la violenza sulle donne e ad una maggiore sensibilità al disvalore di crimini che fanno più vittime della criminalità organizzata. O possono, al contrario, giustificare questa violenza e riprodurla. È un fenomeno che conosciamo fin troppo bene e che si chiama vittimizzazione secondaria. Succede alle donne che sono sopravvissute e a quelle, come Gabriela e Renata Trandafir, che dalla violenza di genere sono state uccise. È inaccettabile leggere che la loro morte violenta sia “umanamente comprensibile”, sulla base di una sofferenza creata da “nefaste dinamiche familiari”.
La sentenza della Corte d’Assise di Modena è motivo di preoccupazione per il Coordinamento dei Centri Antiviolenza dell’Emilia-Romagna, che condivide il commento delle compagne del Centro antiviolenza di Modena che si sono costituite parte civile. Ricordiamo che la Cedu ha condannato l’Italia per la resistenza di stereotipi e pregiudizi di stampo sessista e per un linguaggio che non riconosce pienamente i diritti delle donne e rappresenta le relazioni tra uomini e donne sulla base di rapporti di potere che dovrebbero essere superati.
Nelle motivazioni della sentenza di Modena, si ravvisa, in diversi passaggi, l’adesione al punto di vista dell’autore di violenza, mentre manca la lettura dell’asimmetria di potere, fondamentale linea di distinzione tra violenza e conflitto. Non solo, ma vengono posti sullo stesso livello la vita delle donne e gli interessi economici dell’autore di violenza, un’equiparazione inaccettabile che lede la dignità delle donne vittime di femminicidio.
Colpisce che nelle motivazioni della sentenza si spendano le stesse parole usate dall’imputato. Non solo Gabriella Trandafir e Renata Trandafir vengono definite “donne” e il loro nome scompare, ma a loro viene riferito lo status di “mantenute”. Scompare il valore economico del lavoro di cura svolto da Gabriella Trandafir, mentre il dato che l’uomo avesse duramente lavorato per costruire la casa famigliare viene ripetuto più volte. È evidente l’incapacità di leggere la violenza: in una situazione così grave da culminare in un duplice femminicidio, Gabriella Trandafir e Renata Trandafir dipendevano economicamente dall’uomo che le ha uccise, che ha utilizzato quella dipendenza in una logica ritorsiva e ricattatoria. Il dato della violenza economica dovrebbe essere un’aggravante, e invece diventa motivo di empatia con il femminicida. Anche la paura delle due donne viene negata e banalizzata: nella sentenza di parla di vaghe e generiche minacce senza mai considerare che Salvatore Montefusco fosse in possesso di numerose armi.
“È preoccupante - dichiara Laica Montanari, presidente del Coordinamento - che in un passaggio della sentenza, si rilevi che Gabriella Trandafir fosse talmente libera da poter uscire la sera senza dare spiegazioni al punto che Salvatore Montefusco aveva dovuto mettere un GPS per sapere dove lei andasse. Ci chiediamo che concetto si coltivi della libertà delle donne nei tribunali italiani, e quale concetto si abbia del controllo maschile”.
In un contesto di violenza la cui pericolosità è innegabile, anche visti gli esiti, Gabriella Trandafir e Renata Trandafir si erano rivolte alla giustizia per vedere riconosciuti i loro diritti, ovvero a quello stesso tribunale che ha ritenuto “umanamente comprensibile” che un uomo imbracciasse un fucile a canne mozze e le uccidesse.
Di fronte a questa notizia alla rabbia si unisce la preoccupazione. L’impatto che una notizia di questo tipo può avere su una donna che si trova a vivere una situazione di violenza è devastante. Consapevoli di questo, ci teniamo a ribadire: non siete sole! Iniziare un percorso di fuoriuscita dalla violenza con un centro antiviolenza significa avere il supporto di avvocate e operatrici, anche qualora la violenza si riaffacci laddove non dovrebbe avere spazio, come nelle aule di un tribunale.
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Le donne restano meno tempo in una relazione violenta. È quanto emerge dalla raccolta dati dei Centri antiviolenza. Dal 2000 a oggi, le violenze della durata di sei anni o più sono diminuite del 10%: dal 51% al 40% dei casi. Nello stesso tempo, sono aumentate le richieste di aiuto delle donne che riportano di subire violenza da meno di un anno. Dal 2000 al 2024 l’aumento è dal 20% al 36%.
Le donne riconoscono la violenza in tempi più brevi e interrompono più velocemente il ciclo della violenza: questo è il risultato del lavoro sul territorio portato avanti dai Centri Antiviolenza, non solo nell’accoglienza diretta ma anche a livello sociale e culturale.
Dopo le dichiarazioni del ministro della Pubblica Istruzione, nel giorno della presentazione della Fondazione Cecchettin, alla Camera, supportate dalla Presidente del Consiglio, dobbiamo prendere atto che è in corso un tentativo di strumentalizzare il fenomeno della violenza maschile a vantaggio della propaganda sull’allarme immigrazione.
Nello stesso tempo, la negazione della matrice culturale della violenza maschile, alimentata da una storica asimmetria di potere tra uomini e donne, rivela una precisa strategia politica, di non contrastare quelle disparità, di non intervenire per sradicare pregiudizi e stereotipi.
Del resto, le politiche familistiche del Governo Meloni, il controllo sui corpi delle donne con l’ingresso dei cosiddetti prolife nei consultori, manifestano l’adesione ideologica alla subalternità delle donne. Ricondurre il femminicidio commesso da italiani, come ha fatto il ministro, a residui di maschilismo, vuol dire minimizzare un fenomeno che è strutturale.
Patologizzarlo come disturbo narcisistico, vuol dire connotarlo come un problema individuale che riguarda la sanità, invece è un problema sociale e politico.
Che il patriarcato e la violenza contro le donne continuino a esistere nonostante l’aggiornamento del diritto di famiglia del 1975, ce lo raccontano le decine di migliaia di donne che abbiamo accolto negli ultimi vent’anni.
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Nel primo pomeriggio di lunedì 9 settembre, a Ravenna, è stata uccisa Piera Ebe Bertini. È stata uccisa dal marito, che ha poi chiamato le forze dell’ordine per costituirsi.
Il Coordinamento dei Centri antiviolenza dell’Emilia-Romagna esprime vicinanza ai familiari ed a tutte le persone colpite da questa violenza.
Sono passati meno di 4 mesi dal femminicidio di Silvana Bigatti e di Eleonora Moruzzi prima di lei e purtroppo, riscontriamo gli stessi problemi nella narrazione di queste morti per mano maschile.
La parola femminicidio, che è, finalmente, entrata a far parte del linguaggio comune, quando la donna uccisa, dal partner o dall’ex partner, è giovane ed in salute,
sembra non essere considerata per le donne malate o di età superiore ai 70 anni.
Piera Ebe Bertini aveva 77 anni e soffriva di Alzheimer.
Nessuna di queste è una condizione mortale od una colpa, eppure troppo spesso essere una donna anziana e/o malata, in Italia, porta a morti brutali e assassinii.
Il Coordinamento dei Centri Antiviolenza dell’Emilia-Romagna ribadisce che questa tipologia di delitti non ha niente a che fare con la pietà o l’eutanasia e tutto a che fare con la violenza contro le donne.
Perché a decidere il fine vita non sono le donne, ma gli uomini, che si arrogano il diritto di uccidere.
Questa tipologia di femminicidi è il prodotto di una definizione sociale dei ruoli entro la famiglia, che ancora sostiene aspettative di accudimento in carico alle sole donne.
La sovversione della responsabilità di cura, all’interno della famiglia o della coppia, è qualcosa di fronte al quale l'uomo si trova impreparato e reagisce spesso come se fosse egli stesso il soggetto leso.
Così succede che una donna anziana e malata vada incontro all’abbandono o, in casi estremi, al femminicidio:
l'eliminazione fisica di colei che non risponde più al ruolo attribuitole da una società patriarcale.
Dopo gli ultimi fatti di cronaca relativi al femminicidio di Nicoleta Rotaru, D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza ha inviato alla presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio Martina Semenzato la richiesta di rendere operative le sollecitazioni urgenti, inviate dal GREVIO allo Stato italiano già nel 2020.
Il GREVIO sollecitava “le autorità italiane affinché considerassero l’ipotesi di introdurre un sistema, come ad esempio un meccanismo di revisione critica dell’omicidio, per analizzare tutti i casi di omicidio di donne basate sul genere – femminicidio, al fine di prevenirli in futuro, tutelando la sicurezza delle donne e obbligando a rispondere sia gli autori delle violenze, sia le varie organizzazioni che sono entrate in contatto con le parti”.
“È fondamentale comprendere i punti di debolezza del sistema e capire come possa accadere che -nonostante i molteplici contatti con le FFOO e l’autorità giudiziaria – non si sia saputa riconoscere una situazione ad alto rischio e attivare il sistema di protezione, anche previsto dalla Convenzione di Istanbul” dichiara Antonella Veltri, presidente D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza. “È altrettanto importante individuare le responsabilità, per arrivare nel minor tempo possibile, alla correzione sistemica degli errori” continua la presidente Veltri
Ancora troppo spesso, l’analisi a posteriori che le esperte dei Centri antiviolenza D.i.Re mettono in atto evidenzia lacune ed errori che potrebbero essere evitati con la giusta formazione sulla violenza maschile alle donne e la conseguente attenzione alla valutazione del rischio.
“Intendiamo suggerire una proposta adeguata alla gravità del fenomeno e che metta in atto le raccomandazioni che, da tempo, il GREVIO ci sollecita. Mettere a disposizione l’esperienza dei Centri Antiviolenza D.i.Re è il nostro contributo” conclude Veltri
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Questa non è una storia di “denunce e contro denunce e divieti” come riportano alcuni quotidiani. E’ una vicenda nella quale sarà opportuno fare chiarezza chiedendoci e se non sia l’ennesima cronaca di morte annunciata.
Lavinia Limido, oggi ricoverata con grandissimi sfergi al volto e un taglio alla carotide alla quale è sopravvissuta, aveva chiesto aiuto allo Sato italiano.
L’ha protetta il padre, Fabio Limido, morendo a 71 anni, sotto i colpi dell’ex genero, Marco Manfrinati. E’ morto senza sapere se avesse salvato la figlia. Che cosa è accaduto a Varese?
In base a quanto riportato dai cronisti di diverse testate, il calvario di questa donna e della sua famiglia durava da tempo. Lavinia Limido era scappata il 2 luglio 2022 da casa e si era nascosta fuori provincia per il terrore di essere aggredita e uccisa. Aveva fatto ciò che era un suo diritto, proteggersi ma che era anche un suo dovere, proteggere il figlio nato nel 2021. Aveva denunciato cogliendo l’invito che viene rivolto alle donne durante le infinite passerelle del 25 novembre, accompagnate dai proclami, dai manifesti, dalle sollecitazioni e ammonimenti che tante magistrate, politici, opinionisti dell’ultima ora, declamano dopo che una donna è stata uccisa: “Abbiate coraggio: denunciate, denunciate, denunciate!”.
Poi come tante donne, aveva atteso convivendo con la paura e aspettando quelle risposte celeri ed efficaci che lo Stato italiano deve in nome della Costituzione, del Codice penale, della Convenzione di Istanbul e del Codice Rosso, e più banalmente per umanità.
Una risposta che (ne siamo testimoni tutti i giorni nei centri antiviolenza) troppe volte arriva con lentezza, fermandosi davanti agli ostacoli del pregiudizio misogino, degli stereotipi di uomini violenti che vengono visti come poveri padri ai quali perfide simulatrici vogliono sottrarre la “roba” ovvero: se stesse, la casa, soldi e figli. Ostacoli fatti anche da mancanza di organico della magistratura, delle revoche degli ordini di protezione, delle archiviazioni, della confusione tra conflitto e violenza, della incapacità di riconoscere la gravità delle situazioni e di saper valutare adeguatamente il rischio.
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Ci sono sempre meno dubbi sul fatto che quello di Sofia Stefani, uccisa giovedì sera con un colpo d’arma da fuoco in faccia, sia un femminicidio. Il Coordinamento dei Centri Antiviolenza dell’Emilia-Romagna esprime dolore e sconcerto per la morte di Sofia e si stringe alla sua famiglia ed a tutte le persone che le hanno voluto bene.
Anche questo femminicidio sta diventando un caso mediatico. È importante ricordarsi che a leggere notizie di questo tipo sono anche donne che hanno subito violenza o che, in questo momento, si trovano all’interno di relazioni violente. Per questo ci stringiamo a tutte quelle donne che in questi giorni si sentiranno ancora meno sicure, perché sapere di una donna, agente di polizia municipale, uccisa con un colpo di pistola, all’interno di una centrale di polizia, con l’arma d’ordinanza, impugnata dal suo superiore, è una notizia che mina il senso pubblico di sicurezza.
Sappiamo che la violenza patriarcale è pervasiva e non vi sono luoghi che ne siano esenti. Proprio per questo, ci teniamo a ricordare che le donne che si rivolgono ai centri antiviolenza possono farlo senza alcun obbligo di denuncia e possono chiedere di essere accompagnate e supportate in ogni passo del loro percorso di fuoriuscita dalla violenza, che è sempre guidato e orientato dalle loro decisioni.
È però un fatto che le Forze dell’Ordine ricoprano un ruolo centrale nel contrasto alla violenza sulle donne. L’uomo che ha sparato in faccia a Sofia Stefani, era il commissario capo della polizia locale e nel suo ruolo, avrebbe dovuto essere formato al contrasto alla violenza di genere. Questo femminicidio dimostra quanto il pensiero sessista sia radicato nella società, quanto sia trasversale ad ogni età, ceto sociale, acculturamento.
All’interno delle Forze dell’Ordine ci sono tante persone che agiscono con dedizione, competenza ed impegno nella repressione e nella prevenzione delle violenza di genere. Anche Sofia Stefani, durante il suo lavoro di vigilessa, aveva frequentato una formazione sulla violenza di genere presso lo sportello Via dalla violenza – spazio Angela Romanin, gestito dalla Casa delle donne per non subire violenza di Bologna.
I centri del Coordinamento si trovano spesso a collaborare in rete con i servizi e le istituzioni territoriali, incluse le Forze dell’Ordine. Il lavoro di formazione e sensibilizzazione non è mai troppo. Per questo la formazione continua delle FFOO sul contrasto alla violenza sulle donne è fondamentale, ed è cruciale che i centri antiviolenza continuino ad essere coinvolti in questi percorsi.